mercoledì 29 agosto 2007

Milano trema: la polizia vuole giustizia

<<..giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male..>>


Negli anni settanta, l'immaginario collettivo del cinema italiano viene suggestionato dal poliziesco, proliferano film quali: "Banditi a Milano", "Milano odia: la polizia non può sparare", "Torino nera", etc...
La critica francese conia il termine polar, fusione di polizier e noir. Scelta espilcativa riguardo la mentalità dei protagonisti, spesso vittime e carnefici, guardie ed assassini.
Il successo di pubblico è immediato, gli spettatori sono attratti dalle figure di eroe/anti-eroe dei poliziotti corrotti, uomini che cercano di scavare il marcio gettandone ulteriore. Non c'è legalità nella legalità, tutti sono colpevoli, l'unica differenziazione dei personaggi è data dal grado di potere che anno: chi è marcio in basso e chi è marcio negli alti vertici. Come al solito si è/non si è tutti nella stessa barca.
Il film di Martino è una delle prime pellicole sulla corruzione della polizia in Italia, la trama del film è pericolosa e anticipatoria, ma non vi diro' il perchè....dovete vedere il film.
Numerose, ma non noiose le scene degli inseguimenti, adatta la colonna sonora, bravi gli attori.
E' un lavoro del 1973 che, agli occhi degli spettatori del 2007, può cadere nel trash ma nel suo contesto originale era pura avanguardia.
Da vedere in compagnia dopo una giornata serena.
Nota:**

Spacciamorte

Vi segnalo un ottimo lavoro di un regista romano disponibile on line: myspace.com/mirkovirgili.
Cortometraggio breve ma intenso, affronta un tema difficile: l'eroina, senza cadere nella banalità e nel bigottismo; insomma non è la solita ramanzina.
Il protagonista, sospeso tra la vita e la morte, suscita rabbia e pena; il forte impatto che ha sullo spettatore è frutto di un sapiente uso delle soggettive.
L' unione di droga, conscio, inconscio e senso di colpa dà un valore autonomo alle immagini che non rappresentano, ma sostituiscono, la realtà.
Le musiche ad hoc completano l'opera.
Da vedere per riscoprire il gusto del cinema giovane e indipendente.

lunedì 27 agosto 2007

STILL LIFE

<<...panta rei...>>


Still life: natura morta.

L'espressione, mutuata dalla fotografia, assoluta protagonista dell'opera, apre la mente dello spettatore verso una serie di rimandi della parola morte: morte del paesaggio, della speranza, dei sentimenti, del comunismo e del capitalismo, della tradizione.

I luoghi: tristi e ameni, specchio dell'animo. L'abile uso dei colori (non-colori), rende le location ancora più waste land. La sfrenata ascesa del capitalismo cinese, ha sacrificato sull'altare dell'occidentalizzazione un immenso tesoro: il proprio territorio. Still life. L'inquinamento è in costante aumento, fiumi, laghi, tutto è ormai corroso, i luoghi del film sono pregnanti della rovina della natura, visibile nei lavori per la diga e nei cumuli di macerie. Credo che il versante paesaggistico sia il lato del film meglio riuscito, una sorta di semi-documentarismo di denuncia ambientale.

Il sentimento che domina è la rassegnazione. Paradosso, la trama del film è una ricerca. Le azioni compiute sono una sorta di dovere da compiersi per la propria coscienza. La moglie confida il tradimento, il padre fa il proprio dovere di padre. Nulla cambia però. Non c'è speranza nel cambiamento perchè l'oggetto delle loro ricerche è ormai perduto.

Comunismo e capitalismo, lenta quasi-fine dell'uno e veloce quasi-ascesa dell'altro, impossibilità di convivenza di entrambi. La tradizione cinese ha subito un brusco cambiamento-tradimento, causa globalizzazione. I personaggi di "Still life" non appartengono ad un'alta stratificazione sociale, non hanno l'acqua, ma hanno tutti il cellulare; l'elettricità non arriva ovunque ma il nuovo ponte (modello americano) deve essere illuminato. Ja Zangh-Ke riesce a dare un ritratto della cina contemporanea dove il vecchio e il nuovo convivono a forza, dove le bambine girano ancora per strada vendendo la loro forza lavoro mentre l'edilizia studia i grattaceli.

Leone d'Oro a Venezia nel 2006, pluriacclamato dalla critica ma non dal pubblico quasi offeso presente al cinema.

Da vedere.

Nota:***

mercoledì 22 agosto 2007

" Il ventre dell'architetto"

<<..fare il dottore è soltanto un mestiere..>>

All'interno delle svariate iniziative dell'Estate Romana, trovo interessante una rassegna di cinema che si svolge alle Scuderie del Quirinale, dal titolo "L'architettura nel cinema".
Roma è il luogo del cinema italiano ma è anche il luogo dell'evoluzione architettonica del nostro paese, la fusione di queste due discipline da' vita ad un binomio perfetto che viene riscoperto tramite il percorso artistico di Calatrava, al quale è dedicata la rassegna.
In programma, stasera il film di Peter Greenaway, "Il ventre dell'architetto", del 1987.
E' un film che merita attenzione, un'opera stratificata. Ad una prima lettura puo' sembrare autobiografico, ben presto però si intuisce il messaggio del film, che è un messaggio sociale, una metafora del cinema come prodotto (ormai) industriale, per il quale servono dei budget enormi.
Partendo da cio' si arriva all'analisi del rapporto artista/committente, che scivola immediatamente nel mercenario rapporto artista/denaro. L'artista si trova in crisi riguardo la sua opera, il denaro permette la realizzazione di un 'opera d'arte ma allo stesso tempo la impedisce, si arriva all'aut- aut che spesso costringe l'architetto ad abdicare dalle sue intenzioni.
A Roma è in allestimento una mostra in onore a Boullè, la direzione artistica viene affidata ad una architettto mericano, che vivrà (per i motivi sopracitati) un lento declino del suo ruolo, e di conseguenza della sua vita.
Una coproduzione italo-inglese degna di essere definita d'autore.
Da vedere perchè non di solo pane vive l'uomo.
Nota ***